Le formiche

Dove vanno
le formiche
veloci
a testa bassa
tutte in fila?

Uno scopo ce l’hanno
ma non si sa qual è.

In qualche posto vanno
ma non si sa dov’è.

Umarell

Questa foto che ho pubblicato qualche giorno fa su Linkedin con un commento scherzoso ha superato 450.000 visualizzazioni e ha avuto poco meno di 4.000 like. Questi numeri, da diffusione virale considerando che ho circa 2000 contatti, dimostrano che per gli utenti di Linkedin, in genere utenti professionali, quello dell’umarell è un tema sensibile.

La maggior parte dei commenti sono solo divertiti e sullo stesso tono goliardico del post, ma molti altri affrontano il tema da diverse angolazioni interessanti, sia psicologiche che sociali.

So per esperienza personale che nel pieno dell’attività, fra agende, scadenze, organigrammi, KPI e menate varie non si pensa mai a quando si sarà in pensione. Ma nell’inconscio, di fronte all’umarell, si alza evidentemente una vocina che ci dice: “E io, cosa succederà A ME quando andrò in pensione?”.

Ho scattato la foto la settimana scorsa a Milano, sotto le arcate di Piazza San Babila.

In quel momento la folla attorno a me si muoveva con tempi diversi.

C’era il tempo veloce dei milanesi, il tempo rilassato dei turisti stranieri, il tempo ritmico e concentrato dei molti operai nel cantiere che finivano le ultime opere di superficie.

E poi c’erano loro due, isolati, con la loro postura immobile in un tempo sospeso. Immagine perfetta dell’umarell.

L’ umarell autentico per me è solo quello che guarda il cantiere immobile e in silenzio, senza interagire con chi lavora. E’ un’icona zen, un’inconsapevole mimesi del Budda che medita. Lo caratterizza lo sguardo sull’essere e non sul fare.

E’ questa, immagino, la ragione profonda che rende la figura dell’umarell così attrattiva nella mente dell’utente medio di Linkedin. Dà un senso positivo al tempo vuoto, all’assenza delle urgenze. E’ pura consapevolezza di sé.

Certo, la meditazione zen non è nelle corde di tutti e credo che i modi di adattarsi alla vita in pensione siano i più vari. Dipendono dalla psicologia individuale, dal contesto sociale in cui si vive, dalla qualità e dal tipo degli interessi culturali.

Ma in ogni caso c’è un prima e un dopo nettissimo, marcato da quella giornata particolare in cui torni a casa dal lavoro e ancora non ti rendi conto che è iniziato un eterno weekend.

E scopri anche che, mentre al lavoro ti sei preparato in ogni modo, a non far nulla non sai neanche come si comincia e devi inventarti nuovi schemi e nuove priorità.

Forse la soluzione è vivere il pensionamento come un lavoro?

“The consultant”. Un divertente incubo aziendale

Interpretata da un superlativo Christoph Waltz, l’attore viennese premio Oscar per “Bastardi senza Gloria” e “Django Unchained”, la serie “The consultant” su Prime Video si caratterizza per una sceneggiatura brillante e molto originale, giocata su diversi registri e piani narrativi.

La storia si svolge in una azienda che crea videogiochi. Dopo che il titolare è stato ucciso alla sua scrivania, da un bambino in visita, fa la sua comparsa un enigmatico consulente, Regus Popoff interpretato da Waltz.

Popoff prende subito il controllo dell’azienda, grazie a un contratto con cui il proprietario, poco prima di essere ucciso, gli aveva conferito pieni poteri.

Non sa niente del business ed ha comportamenti che spiazzano i dipendenti.

Ma da subito esercita una leadership totale su di loro, addirittura invadendo le loro sfere private.

La sceneggiatura intreccia abilmente diversi livelli. Elaine e Craig, due dipendenti chiave, indagano sugli aspetti misteriosi di Popoff facendo scoperte inquietanti sulla sua vita. Come in un incubo Eliane scopre un vetusto magazzino segreto, nascosto nel locale dei server, dove sono custodite schede cartacee dettagliatissime sui dipendenti. Quasi un inconscio collettivo dell’azienda.

In azienda si sviluppano dinamiche inattese.

Popoff usa metodi detestabili. Meravigliosa la scena in cui annusa i dipendenti, schierati in fila, alla ricerca del responsabile del cattivo odore che si sente negli uffici. Manipola tutti apertamente, con capacità quasi ipnotiche. Per molti aspetti è l’epitome del tipico top manager stronzo che ognuno di noi ha incontrato nella sua carriera.

Però si scopre che l’azienda è prossima al fallimento e che Popoff sa come salvarla, pur non conoscendo nulla del settore videogiochi.

I dipendenti, giovani creativi impigriti dalla precedente gestione, dopo la sorpresa iniziale reagiscono positivamente alla leadership maniacale, invasiva e stravagante di Popoff.

Eliane scopre dentro di sé un’ambizione di carriera che non sapeva di avere e che la porta a superare ogni scrupolo.

Alla fine Popoff finisce il suo mandato e sarà lei a sedersi nell’ufficio dirigenziale in un’azienda tornata al successo.

Sembra che gli autori, fra un coup de theatre e l’altro, abbiano voluto dirci che le aziende hanno bisogno di un leader e che un leader folle e improbabile è comunque meglio di uno normale ma assente.

L’Italia di ieri e di oggi

Boccaccio 70 è un film ad episodi del 1962 diretto da Fellini, De Sica, Visconti e Monicelli. E’ un’acida e divertente descrizione di un’Italia bigotta ed arretrata.
In quegli anni la commissione censura ci andava giù pesante, anche artisti famosi ne facevano le spese. Ma spesso si vendicavano con film come questo.

L’episodio diretto da Fellini, sceneggiato assieme a Flaiano e Pinelli, interpretato da un eccezionale Peppino De Filippo, si intitola “Le tentazioni del Dottor Antonio”.
Ci mostra la surreale vicenda del Dottor Antonio Mazzuolo, integerrimo esponente del mondo cattolico, ossessionato dal sesso dopo un trauma nell’adolescenza prodotto da una zia particolarmente prosperosa.

Da adulto, si dedica a fustigare i costumi altrui. Con l’appoggio entusiasta delle autorità civili ed ecclesiastiche va di notte, a bordo della sua Seicento Fiat, nei viali dove si appartano le coppiette. Le illumina con i fari e le copre di insulti esortandole ad evitare il sesso fuori dal matrimonio. Irrompe sul palcoscenico di un teatro di avanspettacolo con le ballerine sculettanti e lo interrompe, schiaffeggia una signora al bar che mostra troppo le gambe.

Mazzuolo, un nome che evoca il mazzolatore del malcostume ma è anche un riferimento ironico all’organo sessuale, ha evidentemente dei problemi. Che esplodono apertamente quando nel prato davanti a casa sua viene montato un gigantesco cartellone pubblicitario con la foto di una provocante Anita Ekberg che appoggiando un bicchierone sulla generosa scollatura esorta a bere più latte.

Mazuolo è ossessionato dal cartellone, le prova tutte per farlo rimuovere e alla fine riesce a farlo coprire. Ma una notte la pioggia porta via le coperture e l’episodio vira clamorosamente verso il surreale.
La Ekberg esce dal manifesto come una gigantesca e provocante visione onirica e irretisce Mazzuolo che, in pieno delirio erotico, finisce per affogare piagnucolando nel suo enorme seno, come un bambino.

Si torna alla realtà la mattina dopo, quando lo ritrovano in mutande abbarbicato in cima al cartellone. Due infermieri lo portano via in ambulanza.

Il film è del 1962, ben sessant’anni fa, un’Italia dove i diritti più elementari delle persone venivano negati in nome di una visione integralista ed arcaica della società e della famiglia. Oggi, un Mazzuolo in una posizione di potere, ministro o addirittura presidente della Camera dei Deputati sarebbe impensabile.

Una destra moderna?

Il momento più bello della mia vita fu quando l’ostetrica mi mise in braccio mia figlia appena nata.
Voluta, desiderata, frutto di una scelta consapevole maturata dopo anni precari quando con mia moglie avevamo raggiunto una certa sicurezza sul nostro futuro.
Poi ci sono gravidanze diverse, che non danno gioia. Gravidanze sbagliate, casuali, inopportune. Madri non pronte, situazioni difficili. Cosa c’è di più tremendo per una donna che rinunciare ad un figlio che ha in grembo?

La donna che decide di abortire compie una delle scelte più dolorose, dovrebbe trovare rispetto, supporto, comprensione.

Ammiro, molto, le donne che decidono comunque di continuare la gravidanza. Credo sia giusto, come dice la Meloni, fare di tutto per aiutarle a non abortire. Ma trovo disumano colpevolizzare chi non ci riesce.

Per questo mi sembra orrenda la legge ungherese che vuole obbligare le donne che chiedono di abortire ad ascoltare il battito del cuore del feto.
Che abisso di miseria umana ha dentro chi introduce una simile tortura da infliggere a chi già sta vivendo una sofferenza terribile come è la decisione di abortire?

Per questo mi preoccupa chi ammira Orban, chi ha votato a suo favore contro la condanna dell’Unione Europea, Lega e Fratelli d’Italia, chi condivide la sua visione della società e della persona.

Certo, non ritorneranno in Italia le aquile imperiali e le camicie nere. Ma temo che chi ammira le posizioni di Orban rischi di essere l’erede morale, anche se edulcorato, e forse inconsapevole, dell’Italia peggiore, degli squadristi che cento anni fa partivano sui camion di notte, raggiungevano le cascine isolate e in dieci contro uno uccidevano i contadini socialisti a bastonate davanti alle mogli e ai figli. E poi rientravano a casa ridendo e cantando.
Vorrei tanto una destra diversa, che contribuisca a portare l’Italia avanti, non indietro.

Abbassare l’asticella

Nel gergo aziendale si usa spesso l’espressione “alzare l’asticella” mutuata dallo sport. 
Pensiamo al volto concentrato di un atleta prima del salto che deciderà la sua vittoria, ai lunghi anni di preparazione e allenamenti. Nelle aziende migliori si ritrovano quelle sensazioni, quel senso di sfida e di continuo miglioramento. 
Esistono poi aziende che sembrano avere come motto l’esatto contrario, che l’asticella invece la abbassano. 

Di solito si assiste a questo fenomeno in aziende che hanno raggiunto la maturazione. I loro prodotti sono ben consolidati sul mercato, si vendono quasi da soli, la proprietà è presente solo quando si ripartiscono i dividendi. 

Si verifica allora una serie tipica di fenomeni. 
Il top management viene selezionato solo in funzione della capacità di massimizzare i profitti a breve, senza curarsi del futuro dell’azienda, del suo patrimonio umano e professionale, della sua immagine e della sua posizione sul mercato.
Il middle management deve solo rispondere si alle direttive del vertice ed eseguire, guai a chi turba la quiete. Creatività e sfida diventano disvalori da eliminare. Il sintomo più visibile in queste situazioni è la fuga dei talenti migliori, che lasciano l’azienda. 

L’asticella si abbassa dal vertice fino a tutta l’organizzazione perché il management, soddisfatto del suo record personale di 50 centimetri, prova molto fastidio a lavorare con chi si impegna per saltare oltre due metri.
È per questo motivo che il vertice tara sui 50 centimetri tutto il sistema di valutazione e selezione dell’azienda. Così, progressivamente, nei ruoli dirigenziali di dipartimenti e filiali, e poi a cascata in tutto l’organigramma, vengono messi solo ubbidienti saltatori da 50 centimetri. 

Finché non arriva sul mercato una nuova tecnologia, un nuovo concorrente che i due metri li salta facile.
Le quote di mercato che apparivano così solide si dissolvono e l’azienda entra in crisi. Allora, e mai ammettendo di essere dei falliti, i manager da 50 centimetri migrano in cerca di altre aziende e di nuove asticelle, ancora più basse. 

La foto, presa dal sito della FIDAL, è un tributo a Valerij Brumel, un mito dell’atletica, uno che invece l’asticella la alzava davvero.

Difficile costruire, facile distruggere.

Costruire un’azienda da zero, come imprenditore ma anche come manager, è una delle esperienze professionali più coinvolgenti che si possano desiderare.
Ci vogliono anni di intuizioni, di scelte, di rapporti personali, di errori e di successi. Non hai mai la sensazione di aver finito perché pensi sempre a come migliorare, a come fare di più.
E’ in questo senso del creare che risiede la nobiltà del lavoro di imprenditore. E lo stesso vale per quei manager che hanno la fortuna di avere l’autonomia necessaria per costruire una realtà aziendale, secondo la loro etica e la loro visione.

Poi, purtroppo, certe aziende finiscono nelle mani sbagliate, per esempio per questioni di successione o perché inglobate da fondi di investimento che agiscono con ottiche miopi di breve periodo.
Ed allora si vede come sia facile e veloce distruggere il valore, economico ed umano, che è stato costruito in anni di lavoro.

Le persone non contano più, non conta la loro esperienza, la loro professionalità, la loro dedizione. Diventano righe di bilancio da cancellare guardando soddisfatti al saldo finale.

Si pensa che la clientela resterà fedele comunque e quindi si tagliano le spese di promozione e sviluppo.

I dirigenti che si prestano a questi scempi tradiscono i fondamenti deontologici della professione. Non sono manager, sono mezze maniche sadici e incompetenti soddisfatti di contentare la proprietà con tagli su tagli.
Tanto, pensano, la casa è solida, posso togliere quanti mattoni voglio e regge lo stesso.
E quando si trovano davanti un mucchio di rovine nemmeno allora vengono sfiorati dal dubbio di essere stati stupidi.

Historia magistra vitae

Per preparare la mia tesi di laurea, sulla poesia propagandistica del regime fascista, passai diversi giorni in biblioteca a consultare raccolte di quotidiani degli anni dal 1934 al 1939.

Erano gli anni in cui il regime si era pienamente consolidato, gli anni della guerra contro l’Etiopia, dell’autarchia. L’epoca dello squadrismo era passata e i massacri compiuti dai vari Balbo e Farinacci erano stati da tempo sostituiti da omicidi mirati, come quello dei fratelli Rosselli, dall’uso del confino per i dissidenti e dall’emarginazione capillare di ogni voce di dissenso.

Il regime, e spesso Mussolini in persona, controllavano e dirigevano minuziosamente la stampa, la radio, il cinema.

Avevo letto una buona quantità di “veline” e di istruzioni del duce inviate ogni giorno ai quotidiani sui più vari soggetti con maniacale precisione.

Conoscevo quindi una realtà che era del tutto ignota a chi tanti anni prima aveva aperto le stesse pagine di quel quotidiano, la mattina di un giorno qualsiasi degli anni trenta.

Scorrendo gli articoli di apertura, fra una pubblicità del Ferro China Bisleri e una della Pastina Glutinata Buitoni, mi chiedevo quale idea della situazione in Italia si poteva fare un italiano medio di allora leggendo quegli articoli.

Avrebbe avuto idee molto chiare. L’Italia stava diventando una grande potenza e riconquistava il suo posto nel mondo nonostante le inique sanzioni delle corrotte democrazie occidentali. Ci espandevamo in Africa portando la civiltà, pazienza se per farlo toccava sterminare un po’ di selvaggi. All’interno, il paese era ordinato e ben gestito. Tutti eravamo fieri di essere italiani e inebriati dal ritorno di un destino imperiale per Roma. Nei riti del regime trovavamo senso di identità e di orgoglio nazionale. Nel suo ufficio in Piazza Venezia, illuminato anche di notte, LUI disegnava il nostro radioso futuro, senza le inutili complicazioni della democrazia parlamentare, diretto e deciso.

Questi piccoli viaggi nel tempo che mi concedevo nelle pause delle mie ricerche bibliografiche mi sono tornati in mente, come un déja-vu, leggendo e ascoltando i giornalisti e gli ideologi russi che, intelligentemente, alcuni nostri opinionisti stanno intervistando in questi giorni rendendo evidenti gli effetti di un controllo ferreo del regime di Mosca sull’informazione. Un controllo che arriva all’eliminazione fisica dei dissidenti.

Colpiscono anche certe somiglianze ideologiche, che, con tutte le debite differenze di epoca e di contesto, sono eclatanti. Il riscatto nazionale, la grandezza da ritrovare, la decadenza dell’occidente corrotto e nemico, l’uomo forte al potere. Forse non è casuale che da parte dei nostri politici più putiniani non si sia mai sentita una critica davvero sincera del fascismo mussoliniano. E purtroppo su questo sottofondo ideologico antidemocratico ha fatto leva con successo la politica antieuropea della Russia.

Emily in Paris

È attesa la terza stagione di Emily in Paris, una delle serie di maggior successo su Netflix. Realizzata da Darren Star, l’autore di Sex and the City, interpretata da una sfavillante Lily Collins, la serie ha fatto discutere per l’utilizzo massivo di stereotipi sul modo di lavorare e di vivere di francesi e americani.

In realtà gli stereotipi sono presenti ma sono trattati con elegante leggerezza e risultano perfettamente funzionali ad una narrazione gradevole e mai banale.

Il plot è noto. Emily, brillante e giovane addetta al marketing e ai social in una grande azienda di pubblicità di Chicago, viene spedita a Parigi per mettere in riga Savoir, una piccola e raffinata agenzia di marketing specializzata nel segmento lusso, appena acquisita dal gruppo.

Dopo un inizio traumatico Emily resta affascinata dallo stile di vita parigino e si integra a meraviglia nel nuovo team e con gli affascinanti clienti, passando di successo in successo sia nel lavoro che nella vita sentimentale.

La narrazione delle sfide lavorative che Emily affronta e vince con il suo fresco entusiasmo e il suo contagioso ottimismo suscitano considerazioni non banali da un punto di vista manageriale.
Particolarmente interessante è l’ultimo episodio della seconda serie dove Madeline, la capa americana di Emily, compare all’improvviso a Parigi e si abbatte su Savoir commettendo in rapida successione una serie di errori clamorosi.

Il personaggio di Madeline (nella foto, interpretato dalla bravissima Kate Walsh), connotato da una rozza superficialità, non si rende conto di quanto preziosi siano i rapporti che Savoir, nome non casuale, savoir-vivre, savoir-faire, ha con i suoi clienti.
Non vede proprio quanto raffinati siano lo stile e l’eleganza del suo modello di business e della sua produzione, funzionale al tipo di clientela, creativi del lusso e della moda.
Interpreta come favoritismi i rapporti personali con i clienti che Sylvie, la fondatrice di Savoir, coltiva con successo da anni.
Manca totalmente di fiducia e vorrebbe ricorrere a metodi scorretti per scoprire presunte magagne nei conti.
Occupa sgarbatamente l’ufficio di Sylvie e inanella una serie di pesanti scortesie verso di lei e verso i clienti.

In sostanza, Madeline distrugge valore con l’efficacia e la rapidità del famoso elefante nella cristalleria. Senza rendersene conto.

Con grande perfidia l’autore ci mostra, in una delle scene finali, Madeline che siede soddisfatta con aria ebete alla scrivania di Sylvie, ma sola in un ufficio vuoto.
Infatti, con una nemesi da applausi, vediamo Emily invitata al ristorante dove Sylvie e i suoi colleghi le chiedono se vuole essere con loro nella nuova agenzia, appena creata da Sylvie e dove si è già trasferita tutta la clientela di Savoir.

La tribù degli incivili

I Ghiaourti sono una tribù minoritaria stanziata nella Repubblica Centro Asiatica.
Costituiscono da sempre un problema rilevante per la loro incapacità di integrarsi a livello nazionale e per i loro comportamenti asociali.
Secondo gli esperti il problema nasce dai loro criteri educativi tradizionali. I bambini ghiaourti, infatti, vengono iperprotetti ma sostanzialmente non vengono educati.
Studiano comunque nelle scuole statali dove si contraddistinguono però per un bassissimo rendimento e per l’incapacità di accettare la disciplina e la convivenza in classe. Non sono infrequenti le aggressioni agli insegnanti da parte di famiglie ghiaourte che contestano quelle che considerano discriminazioni verso i loro figli.
Una volta adulti, i Ghiaourti mostrano livelli culturali ed intellettivi molto bassi e sviluppano aspetti caratteriali tipici dove si alternano insicurezza ed aggressività.
Non essendo in grado di elaborare un pensiero critico, basato su una percezione matura della realtà, i Ghiaourti propendono per ideologie settarie e seguono con fanatismo alcuni discutibili personaggi, i cosiddetti “santoni ghiaourti”, che forniscono loro gratificazione e senso identitario.
Come è tipico del pensiero settario, i Ghiaourti sviluppano atteggiamenti paranoici ed aggressivi nei confronti di chi, essendo estraneo alle loro sette, è percepito come un nemico e come una minaccia.
In alcune recenti situazioni di emergenza, dovute ad invasioni di cavallette della steppa che hanno messo a rischio la produzione dell’ orzo bruno, prodotto essenziale per l’economia nazionale, i Ghiaourti hanno sostenuto che il parassita non esisteva e che si trattava di un trucco del governo centrale per imporre loro l’acquisto di antiparassitari.
Dopo questo episodio, che ha avuto ampia risonanza sui media, i Ghiaourti, che già erano ai margini della civile ed avanzata società della Repubblica Centro Asiatica, sono sempre meno tollerati dal resto della popolazione.

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