La tribù degli incivili

I Ghiaourti sono una tribù minoritaria stanziata nella Repubblica Centro Asiatica.
Costituiscono da sempre un problema rilevante per la loro incapacità di integrarsi a livello nazionale e per i loro comportamenti asociali.
Secondo gli esperti il problema nasce dai loro criteri educativi tradizionali. I bambini ghiaourti, infatti, vengono iperprotetti ma sostanzialmente non vengono educati.
Studiano comunque nelle scuole statali dove si contraddistinguono però per un bassissimo rendimento e per l’incapacità di accettare la disciplina e la convivenza in classe. Non sono infrequenti le aggressioni agli insegnanti da parte di famiglie ghiaourte che contestano quelle che considerano discriminazioni verso i loro figli.
Una volta adulti, i Ghiaourti mostrano livelli culturali ed intellettivi molto bassi e sviluppano aspetti caratteriali tipici dove si alternano insicurezza ed aggressività.
Non essendo in grado di elaborare un pensiero critico, basato su una percezione matura della realtà, i Ghiaourti propendono per ideologie settarie e seguono con fanatismo alcuni discutibili personaggi, i cosiddetti “santoni ghiaourti”, che forniscono loro gratificazione e senso identitario.
Come è tipico del pensiero settario, i Ghiaourti sviluppano atteggiamenti paranoici ed aggressivi nei confronti di chi, essendo estraneo alle loro sette, è percepito come un nemico e come una minaccia.
In alcune recenti situazioni di emergenza, dovute ad invasioni di cavallette della steppa che hanno messo a rischio la produzione dell’ orzo bruno, prodotto essenziale per l’economia nazionale, i Ghiaourti hanno sostenuto che il parassita non esisteva e che si trattava di un trucco del governo centrale per imporre loro l’acquisto di antiparassitari.
Dopo questo episodio, che ha avuto ampia risonanza sui media, i Ghiaourti, che già erano ai margini della civile ed avanzata società della Repubblica Centro Asiatica, sono sempre meno tollerati dal resto della popolazione.

Morfologia della fiaba. Propp e i no vax

Il saggio “Morfologia della fiaba” (Morfologija skazki) di Vladimir Jakovlevič Propp, venne pubblicato a Mosca nel 1928. Nel 1958 il libro fu tradotto in inglese e Claude Lévi-Strauss fece conoscere a livello mondiale le ricerche di Propp non solo in ambito antropologico ma anche come uno dei testi fondanti per le moderne scienze del linguaggio e della comunicazione. La prima edizione italiana, per Einaudi, è del 1966.

Analizzando le più note fiabe popolari, Propp scoprì che in ognuna di esse ricorrevano tipologie di personaggi e strutture narrative simili.

Propp individua otto tipologie personaggi e trentuno funzioni o situazioni narrative che si intersecano secondo alcuni schemi ricorrenti. Non tutte le funzioni e i personaggi sono sempre presenti ma in ogni fiaba c’è un eroe, un antagonista, un aiutante dell’eroe, prove che l’eroe deve superare, un segreto da disvelare, un premio finale e così via.

Gli schemi ripetitivi delle trame e dei personaggi sono evidenti pur nell’estrema diversità delle ambientazioni.

Se pensiamo alle fiabe più classiche ma anche a favole più recenti come “Il signore degli anelli” o i film di James Bond, avremo immediatamente chiaro che cosa Propp analizza in modo sistematico nella sua ricerca.

Una fiaba, o anche un romanzo che ne imiti la struttura, o un film che proponga schemi analoghi, innescano nel lettore forti meccanismi psicologici di identificazione nel personaggio e negli accadimenti che lo coinvolgono. Gli schemi situazionali e i personaggi evidenziati da Propp toccano infatti corde molto arcaiche e profonde della psiche dell’uomo, ci riportano agli albori della storia umana, alla lotta per la sopravvivenza.

Le scoperte di Propp sono molto utili anche per capire alcuni meccanismi comunicativi che oggi vediamo dispiegarsi nella vita sociale e politica.

In particolare, se si analizzano le narrazioni complottiste secondo gli schemi della fiaba si scoprono evidenti analogie. Il cittadino comune è l’eroe, le multinazionali, i poteri forti, le banche, i governi sono l’antagonista. L’eroe, il cittadino comune, compie un viaggio iniziatico verso la verità. Supera prove per disvelare finalmente i segreti che il perfido antagonista gli tiene nascosti. Ci sono gli aiutanti magici, di solito saggi e incompresi, che scoprono e mostrano all’eroe gli inganni degli scienziati e dei governi asserviti ai cattivi, alle multinazionali.

Mentre nelle fiabe classiche di solito l’eroe è solo, nella affabulazione complottista l’eroe trova un forte riconoscimento sociale interagendo con i suoi simili nei social e nelle piazze. Il premio finale per l’eroe e per i suoi compagni di viaggio sarà la libertà, o meglio la libbbertà, intesa come salvifica rimozione dei vincoli sociali e liberazione da ogni ansia, insicurezza e paura.

Ovviamente, chi vive immerso in una favola vede come un pericolo la razionalità e il principio di realtà perché vanificherebbero il sistema narrativo coerente da cui trae la sua gratificazione ontologica. Come ben sa chiunque ci abbia provato, far ragionare un no-vax è tempo perso. Ed anche una forma di cattiveria. Perché togliere ad un bambino le sue fiabe?

Dirigenti incapaci e guidatori distratti

Quando la macchina si blocca, e dal cofano escono nuvolette di fumo, ormai è tardi. Come ci si è arrivati? Per quanto tempo sono stati ignorati i rumori che provenivano dal motore, non si è guardato il termometro dell’acqua, non si è cambiato l’olio? Tanto la macchina andava.
Il motore-azienda ci mette più tempo a “fondere” ma la situazione ha molte analogie.
Un top management narcisista, dirigenti incompetenti nei ruoli chiave hanno bisogno di tempo per grippare il motore, ma alla fine ci riescono. Non mettono l’olio, così importante per far funzionare ogni tipo di meccanismo. Nelle aziende l’olio è la fiducia. 
Non controllano se qualche ingranaggio fondamentale si sta logorando, tanto terrà ancora un po’ e chi se ne frega.
Non guardano mai la temperatura del liquido di raffreddamento, guardano il panorama fuori dai finestrini e non si rendono conto che dove si lavora, sotto il cofano, la temperatura sale.  
Dirigenti incapaci e guidatori distratti hanno in comune la mancanza di rispetto per chi fa andare la macchina.

“Tarda Primavera” di Yasujirō Ozu, 1953

“Tarda Primavera” del 1949 è, assieme a “Viaggio a Tokyo” del 1953,
uno dei film più famosi fra i molti girati da Yasujirō Ozu.

Narra del rapporto fra un padre vedovo, professore universitario, e la sua unica figlia. Vivono insieme in una cittadina vicino al mare e lei si sente realizzata nell’accudire il padre, che adora. Ma il padre, che a sua volta ha per la figlia un amore profondo, vorrebbe vederla sposata e indipendente. Arriverà ad un espediente per riuscire a convincerla a quel distacco che il suo altruistico amore paterno sente come necessario. Anche se lui resterà solo.

Nello svolgere una trama così minimale, Ozu riesce però a filmare i sentimenti più profondi di padre e figlia. Lo fa con un rispetto e un pudore propri della cultura giapponese. Un pudore che si riflette nelle sue famose inquadrature in interni con la camera fissa in basso e distanziata. Grazie a questo artificio stilistico abbiamo l’impressione di spiare, non visti, le interazioni e gli stati d’animo intimi dei personaggi.
Impossibile vedere il film se non in lingua originale sottotitolata, perché dialoghi e gestualità sono tipicamente giapponesi. Ma le emozioni sono forti e ben percepibili sotto il formalismo controllato delle mimiche e delle espressioni.

C’è poi il livello dell’analisi sociale, che Ozu svolge giocando sui costumi e sulle scenografie. La casa del professore è una casa giapponese tradizionale. Al piano superiore, nella stanza della ragazza, l’arredo è di tipo occidentale. Del tutto moderna è la casa dell’amica divorziata con cui la figlia, legata ai valori tradizionali, non riesce ad omologarsi. E alla fine sono i valori tradizionali a prevalere.
Ozu ci narra l’evoluzione di un Giappone che ama profondamente e che vede cambiare. Ci comunica questo amore con la poesia delle scene in esterno, dove i templi e i paesaggi rispecchiano la mistica zen.

“Mica scema la ragazza!” (Une belle fille comme moi) di François Truffaut-1972

“Mica scema la ragazza!” (Une belle fille comme moi), del 1972, è fra i film di François Truffaut che vennero meno apprezzati dalla critica, probabilmente  a causa del metro di giudizio molto politicizzato che imperversava in quegli anni. 

Eppure, visto oggi, è un film gradevolissimo. 

Il giovane professore Stanislao Prévine, interpretato da un André Dussolier agli esordi, per scrivere un trattato di sociologia criminale intervista in carcere la seducente Camille Bliss (Bernadette Lafont). 

L’intervista è il pretesto narrativo per mostrarci la vita di Camille a partire dall’infanzia, quando ammazza il padre violento togliendoli la scala del granaio, fino al successo come cantante e alla ricchezza. 

Camille parte svantaggiata in tutto tranne che per una bellezza provocante che fa impazzire gli uomini. Ed è grazie a questa arma, usata senza alcuna remora, che Camille arriva al successo massacrando come una mantide gli uomini di cui si serve, siano essi artisti spregiudicati, disonesti avvocati di provincia o rigidi moralisti che alla fine impazziscono per lei. 

E rovina anche il povero Stanislao che finisce in carcere per un omicidio commesso in realtà da Camille, che ha soggiogato anche lui. 

Il film ha un montaggio rapido, la recitazione è fortemente caratterizzata, le situazioni sono al limite del parodistico. Il film è un divertissement, una commedia ferocemente ironica in cui Truffaut illustra in modo apodittico la sua peculiare filosofia della vita. 

Camille non è immorale, neanche amorale. Ha una morale tutta sua in cui lo svantaggio delle poverissime origini viene superato usando come strumento il sesso, e l’incredibile potere seduttivo che Camille è ben consapevole di possedere.

C’è ovviamente molto di Truffaut in Camille, le origini umili, un’infanzia difficile e una vita privata ed affettiva del tutto fuori dagli schemi borghesi, il successo raggiunto nonostante tutto. 

Non a caso la scena in cui Camille fugge dal riformatorio è una citazione puntuale della scena clou, finale, dei “Quattrocento colpi” il film programmatico e più autobiografico di Truffaut.

“I quattrocento colpi” di François Truffaut

“I quattrocento colpi”, del 1959, è il primo lungometraggio di François Truffaut ed uno dei grandi classici del cinema. Il titolo italiano non ha senso perché traduce alla lettera l’espressione francese intraducibile “faire les quatre cents coups” che significa fare un gran casino, andare contro le regole, fare il diavolo a quattro. Anche il doppiaggio non è all’altezza dell’originale ed è consigliabile vedere il film in francese, eventualmente con l’aiuto dei sottotitoli.

Antoine Doinel, il protagonista dodicenne interpretato da Jean-Pierre Léaud, che sarà l’alter ego del regista anche in film successivi, vive esperienze simili a quelle vissute da Truffaut nella sua difficile infanzia.

Sta con la madre, che non lo ama, e con il patrigno in uno squallido e minuscolo appartamento. Dorme in un sacco a pelo in una specie di cubicolo. A scuola è vessato da un maestro autoritario. Nel tentativo, costantemente fallimentare, di crearsi una sua autonomia e una sua libertà Antoine si mette progressivamente nei guai, fino a compiere maldestramente un furto e finire in riformatorio. Su questa trama, attorno ad Antoine ed alla sua innocente e tenace ricerca di libertà, si intrecciano episodi e personaggi di un film denso di vita.

Influenzato dal neorealismo italiano il film è considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague. I piani sequenza, le inquadrature, il montaggio sono ancora attualissimi e rendono il film avvincente e veloce. La fotografia ci immerge splendidamente in una Parigi fredda e grigia. La recitazione del giovanissimo Léaud toglie ogni pietismo al personaggio di Antoine, pur facendocelo amare.

Quando Antoine scappa dal riformatorio, e corre verso il mare che non ha mai visto, la sua corsa diventa la nostra. E l’inquadratura finale in cui Antoine, con il mare alle spalle, fissa lo sguardo sullo spettatore resta uno dei momenti più belli di tutta la storia del cinema.

25 aprile

Fascisti

lemuri immondi

pallidi morti in sembianze di vivi.

State lontano da noi

e dal nostro semplice cercare se c’è del buono.

A voi non interessa.

I nostri padri in armi vi videro morti

quando vinse di nuovo la luce, e il colore del giorno.

Con orrore vi abbiamo visto risorgere

in Grecia, in Cile, Argentina

ancora a nutrirvi di lacrime e sangue

necrofili ansimanti di voglie oscene.

Chiudetevi nelle grotte profonde e orribili

dove riposano i corpi putrefatti

dei vostri idoli

dove le svastiche e i fez i fasci e le aquile

corrose e annerite

si addossano alle pareti oscure.

Nutritevi dei vermi che dai quei fetidi corpi

si attentano invano a uscire in grovigli

Voi siete la morte

Noi amiamo la vita

Amore mio aiutami con Alberto Sordi e Monica Vitti (1969)

“Amore mio aiutami” è un film del 1969 diretto da Alberto Sordi che ne è anche sceneggiatore assieme a Rodolfo Sonego e Tullio Pinelli.

Sordi interpreta Giovanni Machiavelli, un agiato dirigente bancario, sposato con Raffaella (Monica Vitti). L’idilliaco rapporto della coppia, borghese e benestante, implode clamorosamente quando Raffaella, già di suo svagata e un po’ nevrotica, si prende una dirompente cotta adolescenziale per un altro.

I tentativi di Giovanni per risolvere civilmente l’inatteso problema si scontrano con la tenacia di Raffaella. Memorabile la scena sulla spiaggia in cui un ancestrale maschilismo prende il sopravvento sulla civile e “moderna” tolleranza che Giovanni vorrebbe imporsi. E’ la scena famosa in cui Giovanni gonfia di botte Raffaella che, nonostante il pestaggio, itera il tormentone “si che lo amo !!”.

Alla sua uscita il film ebbe un grande successo di pubblico, mentre la parte della critica più schierata politicamente, siamo nel ’69, accusò Sordi di una certa misoginia e di aver voluto celebrare i valori tradizionali del matrimonio. In realtà nel film non prevalgono intenti sociologici e l’approfondimento psicologico dei personaggi è puramente finalizzato a rafforzare i meccanismi comici. La recitazione di Sordi e della Vitti è sfavillante, le tempistiche comiche sono straordinarie, e il film regala due ore di cinico divertimento alle spalle dei due personaggi centrali, a cui si finisce però per affezionarsi per la loro disarmata umanità.

“L’avventura” di Michelangelo Antonioni

Prime Video, il servizio streaming di Amazon, sta diventando sempre più la terra promessa dei cinefili. Scavando nel catalogo, infatti, saltano fuori i grandi classici del passato, alcuni famosi altri meno, e tanto grande cinema, dagli anni Trenta in poi.  Ci sono molti film con Jean Gabin, dei noir francesi amari e robusti. Commedie degli anni Sessanta e Settanta con Tognazzi, corrosive e feroci nel dipingere le ipocrisie di quegli anni. Quasi tutto Hitchcock, Chabrol e tanti altri maestri del cinema le cui opere sono ancora di una modernità sconcertante. Film che è un piacere vedere, o rivedere, perché di alta qualità sotto tutti gli aspetti.

Ieri sera ho guardato “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, del ’60, il primo film della cosiddetta “Trilogia” seguito da “La notte” e “L’eclisse”.

Il bianco e nero perfetto, restaurato di recente, valorizza una fotografia e una scenografia splendide.

Il film è una danza macabra di sentimenti inariditi ed egoistici, e di passioni che travolgono i personaggi.

Il prologo, a Roma, introduce in chiave realistica i personaggi centrali: la scontenta Anna (Lea Massari) la sensuale, generosa e inconsapevole Claudia (Monica Vitti) e il cinico e disilluso architetto Sandro (Gabriele Ferzetti).

Nelle scene sulle scogliere dell’isola di Lisca Bianca, nelle Eolie, dopo la scomparsa inspiegabile di Anna (Lea Massari) le convenzioni sociali del gruppo di amici benestanti, scesi dalla barca, si svuotano nel rumore del vento e delle onde, una probabile citazione da “Le tempestaire” di Jean Epstein.

Sandro e Claudia si mettono alla ricerca di Anna, attraverso una Sicilia ancora arcaica. Meravigliose le scene a Noto, dove la bellezza della città manda in crisi Sandro che ha rinunciato, per denaro, al lato artistico del lavoro di architetto. Nel viaggio i personaggi di Claudia, nella sua semplicità, e Sandro nel suo sensuale egoismo, si scoprono progressivamente. Fino alla scena finale in cui con un gesto di affetto, nonostante tutto, Claudia, unico personaggio positivo, mette una mano sulla spalla di un Sandro finalmente in lacrime.

Le scienze della comunicazione e la politica

Nel 1916 usciva postumo il trattato “Cours de linguistique générale” che raccoglie le scoperte e gli insegnamenti di Ferdinand de Saussure. Quel libro è alla base di tutte le acquisizioni scientifiche sulla lingua e la comunicazione che si sono susseguite dal secolo scorso fino ad oggi.

Con l’avvento dei social media, negli ultimi decenni, la scienza del linguaggio ha fatto progressi molto rapidi, divenendo scienza della comunicazione, integrandosi con altre discipline sia di tipo tecnico informatico che psicologico e sociologico.

Oggi viviamo immersi in un flusso costante e massivo di informazioni, non paragonabile, per invasività e dimensioni, a niente di simile che sia mai esistito nella storia umana.

Per chi sa gestire la comunicazione si aprono enormi possibilità di influenza politica e sociale.

Pensiamo, per esempio, a Bannon, a Casaleggio, al fallimento del referendum di Renzi, alla Brexit, ai post martellanti della “Bestia” di Salvini.

Indipendentemente da ogni giudizio politico, dietro ad ognuna di queste realtà ci sono dei team che padroneggiano, con grande professionalità, non solo le tecniche specifiche di gestione dei social media, ma anche le tecniche classiche della retorica e della manipolazione psicologica. La manipolazione socio-politica, sempre esistita, raggiunge oggi livelli mai visti per rapidità ed ampiezza di diffusione.

I risultati sono evidenti. Scelte che non sempre coincidono con l’interesse reale di un paese si impongono e vincono, grazie alla condivisione sociale in larga parte innescata ad arte. Tanto che il concetto classico di rappresentanza democratica sembra sfilacciarsi e perdere di senso.

Milioni di persone vivono immerse ogni giorno in un mare di informazioni, senza possedere gli strumenti culturali necessari per filtrarle con coscienza critica. E’ un fenomeno di cui molti non hanno consapevolezza che sta però cambiando le basi della gestione politica a livello mondiale.

Sarebbe molto importante che elementi basilari delle scienze della comunicazione entrassero nel bagaglio culturale almeno dei giovani, andando a far parte dei programmi scolastici accanto a materie come l’informatica o l’educazione civica.

Intanto, in questi giorni, siamo di fronte ad una novità assai interessante per chi si occupa di comunicazione. Ha molto colpito, positivamente, che Draghi non sia presente sui social. Il suo modo di comunicare, scarno e fattuale, rappresenta una piacevole novità. Dal punto di vista delle scienze della comunicazione sarà molto interessante analizzare come Draghi comunicherà e come il suo messaggio verrà accolto e sostenuto dal pubblico generale.

Ferdinand de Saussure – Heritage images/ Getty Images

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