“Tarda Primavera” di Yasujirō Ozu, 1953

“Tarda Primavera” del 1949 è, assieme a “Viaggio a Tokyo” del 1953,
uno dei film più famosi fra i molti girati da Yasujirō Ozu.

Narra del rapporto fra un padre vedovo, professore universitario, e la sua unica figlia. Vivono insieme in una cittadina vicino al mare e lei si sente realizzata nell’accudire il padre, che adora. Ma il padre, che a sua volta ha per la figlia un amore profondo, vorrebbe vederla sposata e indipendente. Arriverà ad un espediente per riuscire a convincerla a quel distacco che il suo altruistico amore paterno sente come necessario. Anche se lui resterà solo.

Nello svolgere una trama così minimale, Ozu riesce però a filmare i sentimenti più profondi di padre e figlia. Lo fa con un rispetto e un pudore propri della cultura giapponese. Un pudore che si riflette nelle sue famose inquadrature in interni con la camera fissa in basso e distanziata. Grazie a questo artificio stilistico abbiamo l’impressione di spiare, non visti, le interazioni e gli stati d’animo intimi dei personaggi.
Impossibile vedere il film se non in lingua originale sottotitolata, perché dialoghi e gestualità sono tipicamente giapponesi. Ma le emozioni sono forti e ben percepibili sotto il formalismo controllato delle mimiche e delle espressioni.

C’è poi il livello dell’analisi sociale, che Ozu svolge giocando sui costumi e sulle scenografie. La casa del professore è una casa giapponese tradizionale. Al piano superiore, nella stanza della ragazza, l’arredo è di tipo occidentale. Del tutto moderna è la casa dell’amica divorziata con cui la figlia, legata ai valori tradizionali, non riesce ad omologarsi. E alla fine sono i valori tradizionali a prevalere.
Ozu ci narra l’evoluzione di un Giappone che ama profondamente e che vede cambiare. Ci comunica questo amore con la poesia delle scene in esterno, dove i templi e i paesaggi rispecchiano la mistica zen.

“Mica scema la ragazza!” (Une belle fille comme moi) di François Truffaut-1972

“Mica scema la ragazza!” (Une belle fille comme moi), del 1972, è fra i film di François Truffaut che vennero meno apprezzati dalla critica, probabilmente  a causa del metro di giudizio molto politicizzato che imperversava in quegli anni. 

Eppure, visto oggi, è un film gradevolissimo. 

Il giovane professore Stanislao Prévine, interpretato da un André Dussolier agli esordi, per scrivere un trattato di sociologia criminale intervista in carcere la seducente Camille Bliss (Bernadette Lafont). 

L’intervista è il pretesto narrativo per mostrarci la vita di Camille a partire dall’infanzia, quando ammazza il padre violento togliendoli la scala del granaio, fino al successo come cantante e alla ricchezza. 

Camille parte svantaggiata in tutto tranne che per una bellezza provocante che fa impazzire gli uomini. Ed è grazie a questa arma, usata senza alcuna remora, che Camille arriva al successo massacrando come una mantide gli uomini di cui si serve, siano essi artisti spregiudicati, disonesti avvocati di provincia o rigidi moralisti che alla fine impazziscono per lei. 

E rovina anche il povero Stanislao che finisce in carcere per un omicidio commesso in realtà da Camille, che ha soggiogato anche lui. 

Il film ha un montaggio rapido, la recitazione è fortemente caratterizzata, le situazioni sono al limite del parodistico. Il film è un divertissement, una commedia ferocemente ironica in cui Truffaut illustra in modo apodittico la sua peculiare filosofia della vita. 

Camille non è immorale, neanche amorale. Ha una morale tutta sua in cui lo svantaggio delle poverissime origini viene superato usando come strumento il sesso, e l’incredibile potere seduttivo che Camille è ben consapevole di possedere.

C’è ovviamente molto di Truffaut in Camille, le origini umili, un’infanzia difficile e una vita privata ed affettiva del tutto fuori dagli schemi borghesi, il successo raggiunto nonostante tutto. 

Non a caso la scena in cui Camille fugge dal riformatorio è una citazione puntuale della scena clou, finale, dei “Quattrocento colpi” il film programmatico e più autobiografico di Truffaut.

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