Umarell

Questa foto che ho pubblicato qualche giorno fa su Linkedin con un commento scherzoso ha superato 450.000 visualizzazioni e ha avuto poco meno di 4.000 like. Questi numeri, da diffusione virale considerando che ho circa 2000 contatti, dimostrano che per gli utenti di Linkedin, in genere utenti professionali, quello dell’umarell è un tema sensibile.

La maggior parte dei commenti sono solo divertiti e sullo stesso tono goliardico del post, ma molti altri affrontano il tema da diverse angolazioni interessanti, sia psicologiche che sociali.

So per esperienza personale che nel pieno dell’attività, fra agende, scadenze, organigrammi, KPI e menate varie non si pensa mai a quando si sarà in pensione. Ma nell’inconscio, di fronte all’umarell, si alza evidentemente una vocina che ci dice: “E io, cosa succederà A ME quando andrò in pensione?”.

Ho scattato la foto la settimana scorsa a Milano, sotto le arcate di Piazza San Babila.

In quel momento la folla attorno a me si muoveva con tempi diversi.

C’era il tempo veloce dei milanesi, il tempo rilassato dei turisti stranieri, il tempo ritmico e concentrato dei molti operai nel cantiere che finivano le ultime opere di superficie.

E poi c’erano loro due, isolati, con la loro postura immobile in un tempo sospeso. Immagine perfetta dell’umarell.

L’ umarell autentico per me è solo quello che guarda il cantiere immobile e in silenzio, senza interagire con chi lavora. E’ un’icona zen, un’inconsapevole mimesi del Budda che medita. Lo caratterizza lo sguardo sull’essere e non sul fare.

E’ questa, immagino, la ragione profonda che rende la figura dell’umarell così attrattiva nella mente dell’utente medio di Linkedin. Dà un senso positivo al tempo vuoto, all’assenza delle urgenze. E’ pura consapevolezza di sé.

Certo, la meditazione zen non è nelle corde di tutti e credo che i modi di adattarsi alla vita in pensione siano i più vari. Dipendono dalla psicologia individuale, dal contesto sociale in cui si vive, dalla qualità e dal tipo degli interessi culturali.

Ma in ogni caso c’è un prima e un dopo nettissimo, marcato da quella giornata particolare in cui torni a casa dal lavoro e ancora non ti rendi conto che è iniziato un eterno weekend.

E scopri anche che, mentre al lavoro ti sei preparato in ogni modo, a non far nulla non sai neanche come si comincia e devi inventarti nuovi schemi e nuove priorità.

Forse la soluzione è vivere il pensionamento come un lavoro?

Abbassare l’asticella

Nel gergo aziendale si usa spesso l’espressione “alzare l’asticella” mutuata dallo sport. 
Pensiamo al volto concentrato di un atleta prima del salto che deciderà la sua vittoria, ai lunghi anni di preparazione e allenamenti. Nelle aziende migliori si ritrovano quelle sensazioni, quel senso di sfida e di continuo miglioramento. 
Esistono poi aziende che sembrano avere come motto l’esatto contrario, che l’asticella invece la abbassano. 

Di solito si assiste a questo fenomeno in aziende che hanno raggiunto la maturazione. I loro prodotti sono ben consolidati sul mercato, si vendono quasi da soli, la proprietà è presente solo quando si ripartiscono i dividendi. 

Si verifica allora una serie tipica di fenomeni. 
Il top management viene selezionato solo in funzione della capacità di massimizzare i profitti a breve, senza curarsi del futuro dell’azienda, del suo patrimonio umano e professionale, della sua immagine e della sua posizione sul mercato.
Il middle management deve solo rispondere si alle direttive del vertice ed eseguire, guai a chi turba la quiete. Creatività e sfida diventano disvalori da eliminare. Il sintomo più visibile in queste situazioni è la fuga dei talenti migliori, che lasciano l’azienda. 

L’asticella si abbassa dal vertice fino a tutta l’organizzazione perché il management, soddisfatto del suo record personale di 50 centimetri, prova molto fastidio a lavorare con chi si impegna per saltare oltre due metri.
È per questo motivo che il vertice tara sui 50 centimetri tutto il sistema di valutazione e selezione dell’azienda. Così, progressivamente, nei ruoli dirigenziali di dipartimenti e filiali, e poi a cascata in tutto l’organigramma, vengono messi solo ubbidienti saltatori da 50 centimetri. 

Finché non arriva sul mercato una nuova tecnologia, un nuovo concorrente che i due metri li salta facile.
Le quote di mercato che apparivano così solide si dissolvono e l’azienda entra in crisi. Allora, e mai ammettendo di essere dei falliti, i manager da 50 centimetri migrano in cerca di altre aziende e di nuove asticelle, ancora più basse. 

La foto, presa dal sito della FIDAL, è un tributo a Valerij Brumel, un mito dell’atletica, uno che invece l’asticella la alzava davvero.

Difficile costruire, facile distruggere.

Costruire un’azienda da zero, come imprenditore ma anche come manager, è una delle esperienze professionali più coinvolgenti che si possano desiderare.
Ci vogliono anni di intuizioni, di scelte, di rapporti personali, di errori e di successi. Non hai mai la sensazione di aver finito perché pensi sempre a come migliorare, a come fare di più.
E’ in questo senso del creare che risiede la nobiltà del lavoro di imprenditore. E lo stesso vale per quei manager che hanno la fortuna di avere l’autonomia necessaria per costruire una realtà aziendale, secondo la loro etica e la loro visione.

Poi, purtroppo, certe aziende finiscono nelle mani sbagliate, per esempio per questioni di successione o perché inglobate da fondi di investimento che agiscono con ottiche miopi di breve periodo.
Ed allora si vede come sia facile e veloce distruggere il valore, economico ed umano, che è stato costruito in anni di lavoro.

Le persone non contano più, non conta la loro esperienza, la loro professionalità, la loro dedizione. Diventano righe di bilancio da cancellare guardando soddisfatti al saldo finale.

Si pensa che la clientela resterà fedele comunque e quindi si tagliano le spese di promozione e sviluppo.

I dirigenti che si prestano a questi scempi tradiscono i fondamenti deontologici della professione. Non sono manager, sono mezze maniche sadici e incompetenti soddisfatti di contentare la proprietà con tagli su tagli.
Tanto, pensano, la casa è solida, posso togliere quanti mattoni voglio e regge lo stesso.
E quando si trovano davanti un mucchio di rovine nemmeno allora vengono sfiorati dal dubbio di essere stati stupidi.

Emily in Paris

È attesa la terza stagione di Emily in Paris, una delle serie di maggior successo su Netflix. Realizzata da Darren Star, l’autore di Sex and the City, interpretata da una sfavillante Lily Collins, la serie ha fatto discutere per l’utilizzo massivo di stereotipi sul modo di lavorare e di vivere di francesi e americani.

In realtà gli stereotipi sono presenti ma sono trattati con elegante leggerezza e risultano perfettamente funzionali ad una narrazione gradevole e mai banale.

Il plot è noto. Emily, brillante e giovane addetta al marketing e ai social in una grande azienda di pubblicità di Chicago, viene spedita a Parigi per mettere in riga Savoir, una piccola e raffinata agenzia di marketing specializzata nel segmento lusso, appena acquisita dal gruppo.

Dopo un inizio traumatico Emily resta affascinata dallo stile di vita parigino e si integra a meraviglia nel nuovo team e con gli affascinanti clienti, passando di successo in successo sia nel lavoro che nella vita sentimentale.

La narrazione delle sfide lavorative che Emily affronta e vince con il suo fresco entusiasmo e il suo contagioso ottimismo suscitano considerazioni non banali da un punto di vista manageriale.
Particolarmente interessante è l’ultimo episodio della seconda serie dove Madeline, la capa americana di Emily, compare all’improvviso a Parigi e si abbatte su Savoir commettendo in rapida successione una serie di errori clamorosi.

Il personaggio di Madeline (nella foto, interpretato dalla bravissima Kate Walsh), connotato da una rozza superficialità, non si rende conto di quanto preziosi siano i rapporti che Savoir, nome non casuale, savoir-vivre, savoir-faire, ha con i suoi clienti.
Non vede proprio quanto raffinati siano lo stile e l’eleganza del suo modello di business e della sua produzione, funzionale al tipo di clientela, creativi del lusso e della moda.
Interpreta come favoritismi i rapporti personali con i clienti che Sylvie, la fondatrice di Savoir, coltiva con successo da anni.
Manca totalmente di fiducia e vorrebbe ricorrere a metodi scorretti per scoprire presunte magagne nei conti.
Occupa sgarbatamente l’ufficio di Sylvie e inanella una serie di pesanti scortesie verso di lei e verso i clienti.

In sostanza, Madeline distrugge valore con l’efficacia e la rapidità del famoso elefante nella cristalleria. Senza rendersene conto.

Con grande perfidia l’autore ci mostra, in una delle scene finali, Madeline che siede soddisfatta con aria ebete alla scrivania di Sylvie, ma sola in un ufficio vuoto.
Infatti, con una nemesi da applausi, vediamo Emily invitata al ristorante dove Sylvie e i suoi colleghi le chiedono se vuole essere con loro nella nuova agenzia, appena creata da Sylvie e dove si è già trasferita tutta la clientela di Savoir.

Dirigenti incapaci e guidatori distratti

Quando la macchina si blocca, e dal cofano escono nuvolette di fumo, ormai è tardi. Come ci si è arrivati? Per quanto tempo sono stati ignorati i rumori che provenivano dal motore, non si è guardato il termometro dell’acqua, non si è cambiato l’olio? Tanto la macchina andava.
Il motore-azienda ci mette più tempo a “fondere” ma la situazione ha molte analogie.
Un top management narcisista, dirigenti incompetenti nei ruoli chiave hanno bisogno di tempo per grippare il motore, ma alla fine ci riescono. Non mettono l’olio, così importante per far funzionare ogni tipo di meccanismo. Nelle aziende l’olio è la fiducia. 
Non controllano se qualche ingranaggio fondamentale si sta logorando, tanto terrà ancora un po’ e chi se ne frega.
Non guardano mai la temperatura del liquido di raffreddamento, guardano il panorama fuori dai finestrini e non si rendono conto che dove si lavora, sotto il cofano, la temperatura sale.  
Dirigenti incapaci e guidatori distratti hanno in comune la mancanza di rispetto per chi fa andare la macchina.

Elogio del manager invisibile

Sappiamo tutti come è fatto un manager narciso perché tutti, purtroppo, ne abbiamo incontrato almeno uno nella nostra carriera.

Il Narciso del mito aveva la ninfa Eco che lo seguiva sempre, osannando il suo nome. E infatti il marker principale del manager narciso è la presenza attorno a lui di una cerchia di incensatori, proni al suo volere e sempre pronti a lodarlo.

I suoi yes-men sono la sua gioia ma anche la sua condanna perché, privato così di riscontri oggettivi sull’esito delle sue decisioni, il manager narciso prima o poi si incarta. Non senza aver prima prodotto abbondanti dosi di infelicità aziendale.

All’estremo opposto della scala dell’efficacia manageriale troviamo il manager invisibile.

Mentre il narcisista è sempre e solo focalizzato su sé stesso, il manager invisibile ha una focalizzazione assoluta sugli altri e sulle cose da fare. Non ha nessun interesse per gli indicatori di status, raramente lo vedrete in posa sulle riviste di settore, le pareti del suo ufficio sono prive di attestati, diplomi e foto ricordo.

Sa ascoltare, ma non lo fa in modo superficiale o manipolatorio. Ascolta perché ha un interesse vero per le persone, e sa che l’esperienza degli operativi è una miniera di soluzioni pratiche a cui attingere. E’ molto motivato al successo ma vede i successi come un risultato di tutti, non solo suo. Mentre si cura poco di sé stesso, ha molta cura di chi collabora con lui. Rispetta le persone, per attitudine psicologica ed etica.

I piani e i progetti del manager narciso sono formalmente completi e perfetti ma spesso, centrati come sono su esigenze di coerenza estetica, si impantanano nella realizzazione pratica. Anche perché le critiche costruttive e le proposte di miglioramento sono viste come attentati all’auto-percezione idolatrica del leader.

Piani e progetti del manager invisibile, invece, sono spesso schematici e sempre aperti a cambiamenti in corso d’opera, al riscontro nella realtà e al parere di chi è coinvolto nella loro attuazione. Non sono perfetti e formalmente rifiniti, si basano però su una visione molto chiara e concreta dei risultati che si vogliono ottenere.

E alla fine il successo di quel piano sarà il successo di tutti in azienda. Perché non è vero che il volto del manager invisibile non si vede. Si vede benissimo perché è il volto di tutti quelli che lavorano con lui.

“Guerra e pace” e il management

Alle tante storie che formano quel romanzo meraviglioso che è “Guerra e pace”, si interseca, come è noto, la narrazione dell’invasione della Russia da parte dell’esercito napoleonico.

Lev Nikolàevič Tolstòj aveva avuto un’esperienza diretta della guerra. La guerra di Crimea, a cui partecipò in una posizione di comando, fu una tappa fondamentale della sua evoluzione culturale e umana. I suoi “Racconti di Sebastopoli” furono censurati per la realistica crudezza con cui descrivevano l’orrore dei combattimenti.

Si spiega così il modo in cui, nel suo romanzo principale, Tolstòj descrive le battaglie che si svolsero durante la campagna di Russia.

L’esperienza personale della guerra si riflette evidente ed impietosa nella ricostruzione storica e nell’analisi che ci offre in “Guerra e pace” del potere politico e militare, della pianificazione strategica e della sua attuazione reale sul campo di battaglia, attraverso la catena di comando. E’ un’analisi ancora attualissima sul potere, su come conquistarlo, mantenerlo e usarlo. E su come non sempre i fatti e la loro pianificazione coincidano.

Lo Zar Alessandro in quegli anni ha il potere assoluto, avere il suo favore è quindi la precondizione fondamentale per ottenere ed esercitare il comando. Tolstòj descrive i grandi generali dello stato maggiore in lotta fra loro, le loro trame per riuscire ad avere il consenso del sovrano autocratico. Un consenso alla loro visione e, soprattutto, alla loro affermazione egotica. Per farcela a volte mentono, spesso applicano il principio che ci sono tanti modi di dire la verità che non è necessario mentire.

Oggi il potere è parcellizzato fra milioni di cittadini che lo esercitano attraverso le elezioni. La ricerca del loro consenso rende centrali sondaggi ed analisi del sentiment. Ma oggi come allora perseguendo solo il consenso, pur necessario per esercitare il potere, si rischia di fare scelte sbagliate e non lungimiranti.

In ambito aziendale pensiamo alla massimizzazione estremistica del profitto a breve, a quei top manager che hanno lo sguardo sempre rivolto ai dividendi e alla proprietà, non verso l’azienda e il suo valore nel tempo. Sono molto diversi da quei grandi generali zaristi gallonati che tramano l’uno contro l’altro per ingraziarsi lo Zar Alessandro?

La descrizione delle riunioni di stato maggiore che precedono le battaglie è di un’ironia feroce. Sono confronti violenti fra personalità narcisistiche innamorate dei loro dettagliatissimi progetti la  cui coerenza estetica sembra il fattore predominante. Piani che determineranno la vittoria o la sconfitta, la vita e la morte di migliaia di soldati vengono bocciati o approvati in base a giochi di potere, e sono drammaticamente scollegati da una percezione reale della situazione. Deciso il piano, una disciplina ferrea lo trasmette per le linee di comando, tramite ufficiali intermedi che non capiscono ma si adeguano, a chi sul campo dovrà comandare le truppe all’assalto.

Quando inizia la battaglia presto la confusione è totale. Incomprensioni e ritardi, nebbia e fumo dei cannoni, creano uno scenario incerto dove i piani perfetti del comando si sgretolano in un carnaio caotico.

La sorte delle battaglie, sembra dirci Tolstòj, alla fine dipende in larga parte dal caso e dal fattore umano che è l’unico capace di costruire episodi di buon senso operativo nel caos sul campo. A decidere chi vince e chi perde è l’ufficiale di prima linea che prende d’istinto e per esperienza le decisioni giuste anche sotto lo stress del combattimento, è il soldatino russo che per orgoglio istintivo si butta all’attacco invece di ritirarsi, trascinando i compagni dietro di sé.

Se questa situazione vi innesca un déjà-vu vuol dire che avete visto accadere le stesse cose nella realtà di qualche infelice azienda. Top management narcisista, middle management disciplinato ma inerte, piani teoricamente perfetti ma rigidi e imposti dall’alto senza accettare modifiche di buon senso.

E alla fine sono l’ufficiale sul campo e il soldato di prima linea, orgoglioso e onesto, che devono metterci la pezza.

Se volete riorganizzare l’azienda non assumete Napoleone

La sindrome di Napoleone affligge molti manager, ma è particolarmente pericolosa quando colpisce chi arriva a capo di una multinazionale o comunque di un’azienda di grandi dimensioni che la proprietà vuole riorganizzare.

I sintomi non si manifestano subito, il top manager napoleonico è brillante ed ha avuto una carriera di successi. Su certe zone oscure nel passato del personaggio gli azionisti preferiscono non indagare, contenti di aver trovato chi promette di risolvere i loro problemi.

Il primo sintomo che si manifesta è l’assunzione di una serie di middle manager provenienti dalle aziende dove il nostro ha lavorato prima. Sono i “suoi” uomini, ma non necessariamente i migliori sul mercato. Persone su cui lui sa di poter contare perché gli dicono sempre di sì.

Per il nostro Napoleone l’azienda, prima del suo arrivo, è l’ancien régime da abbattere. Bisogna conquistarla e rinnovarla. Il suo progetto di riorganizzazione è grandioso e perfetto.  Peccato però che non tenga conto del fatto che, se l’azienda fino ad oggi ha funzionato ed è cresciuta, forse non tutti quelli che ci lavorano sono degli incompetenti e sarebbe meglio consultarli e coinvolgerli.

Ma questa scelta di buon senso potrebbe modificare il progetto, mentre ciò che Napoleone pensa e decide è, per definizione, perfetto. I suoi yes man glielo confermano di continuo.

Quando il piano di riorganizzazione parte succede il guaio. Dipartimenti e filiali, commerciali e amministrativi segnalano le problematiche e i necessari adattamenti. Lo fanno perché il progetto di riorganizzazione funzioni al meglio, nell’interesse dell’azienda di cui spesso sono veri patrioti.  Ma invece che trovare ascolto e collaborazione trovano un muro di ostilità. Gli yes man attorno a Napoleone, scollegati come sono dalla percezione reale dei processi, vivono le proposte come se fossero delle critiche al loro progetto. Reagiscono male e segnalano a Napoleone come manifestazioni di resistenza al cambiamento e di indisciplina le proposte costruttive che arrivano dai reparti.

Le conseguenze sono ovvie. La comunicazione si blocca, i tempi si allungano, le funzioni verso il cliente si inceppano. L’azienda soffre e rischia. Si bruciano efficienza, competitività, motivazione delle persone.

Forse solo allora chi ha assunto Napoleone si rende conto che era meglio assumere un “servant leader” concetto che amo molto e di cui parleremo un’altra volta.

La tua azienda è una città ideale?

Nella seconda metà del Quattrocento, in pieno Rinascimento, vennero realizzate in area urbinate o fiorentina, da autore incerto, alcune tavole che rappresentavano la veduta di una città ideale.

Imbevute di citazioni dell’architettura romana e basate sui criteri della prospettiva, le vedute mostrano un contesto urbano di fantasia, estremamente armonico e sereno.

Lo scopo di questi dipinti era molto probabilmente politico, nel filone delle tradizionali illustrazioni del “buon governo” visibili ancora oggi in diversi palazzi civici italiani.

Sono gli anni in cui Lorenzo de’Medici trasforma Firenze nella nuova Atene, e nelle corti italiane si forma la cultura che poi dominerà il mondo per secoli.

La lotta politica conosce violenze, guerre e tradimenti ma chi governa le città italiane, oltre che al potere, aspira a identificare la propria gloria con la bellezza urbanistica, con l’eccellenza nelle arti e con la prosperità del popolo.

Il potere va conquistato con ogni mezzo, con le arti della volpe e del leone, ma trova la sua giustificazione etica nel fine ultimo di costruire una “città ideale”. Una città dove l’uomo trovi la sua realizzazione nella serenità della bellezza, dove l’armonia è il metro assoluto di ogni cosa.

Quanta di quella luce che dal Rinascimento illumina la nostra storia è arrivata fino a noi?

In politica direi ben poca. Fra chi commissionava le sue opere al Botticelli e chi usa manipoli di manipolatori per fare cassa di risonanza agli istinti peggiori delle masse l’abisso è tale da sfiorare il ridicolo. Ma anche senza guardare ai nuovi barbari, che ormai bivaccano nelle parti peggiori della nostra anima nazionale, la classe politica italiana di oggi è desolante, incapace di comunicare ideali e sfide in cui identificarsi.

E riguardo al tessuto civile, quando per esempio devo andare in una sede INPS, mi appare drammaticamente evidente che la città ideale forse l’hanno costruita da un’altra parte.

E nelle aziende?

In Italia, si sa, portiamo vanto delle moltissime piccole e medie imprese, spesso di grande successo, che tanto contribuiscono all’identità e al benessere del paese.

Tipicamente hanno un fondatore ancora al comando o sono gestite dai suoi eredi diretti.

Queste aziende sono molto spesso delle piccole “città ideali” in cui il fondatore ha infuso la sua visione e i suoi valori. Non tutti sono dei Lorenzo de’ Medici, ci mancherebbe, ma comunque se hanno avuto successo è perché la loro etica del lavoro, la loro visione e i loro valori erano sani e forti. E in quanto tali si sono riversati nei prodotti, hanno trovato riscontro nel mercato e nella motivazione dei collaboratori che via via si sono aggregati all’azienda che cresceva, contribuendo al suo successo.

La sfida, come spesso vediamo, è la continuità valoriale quando avviene il cambio generazionale o quando si raggiungono dimensioni che richiedono catene più lunghe di comando.

Infatti coerenza è forse la parola più importante nella gestione aziendale. Ed è agevole da mantenere quando c’è un uomo solo al comando, ben più difficile difenderla quando le deleghe necessariamente aumentano.

Vediamo le multinazionali. Pensiamo, solo a titolo di esempio, a Google, Amazon, Facebook, FCA, Ferrero, Microsoft.

Ognuno di questi marchi a diffusione mondiale evoca filosofie aziendali, visioni e campi connotativi che possono variare a seconda di chi li legge, della sua cultura e della sua ideologia.  Dipende anche da quante volte e a che livello siamo venuti a contatto con quelle aziende, come semplici clienti, come fornitori o come dipendenti.

Comunque, ogni grande multinazionale dichiara una sua specifica cultura e un set di valori fondanti. E molto spesso si vede una notevole coerenza fra il dire e il fare, sia pure con tutte le diluizioni dovute alle dimensioni. Penso per esempio a Ferrero, un’azienda che se paradossalmente chiedesse la delega per governare l’Italia avrebbe con molta probabilità un consenso plebiscitario.

E’ evidente che per ogni azienda, grande o piccola, la sfida fondamentale è mantenere nel quotidiano la coerenza fra i valori di riferimento dichiarati e i comportamenti messi in atto verso tutti gli stakeholder interni ed esterni.

Purtroppo, nel corso della mia lunga carriera, ho visto spesso come basti un solo manager incapace o scorretto, annidato in una posizione di potere anche non necessariamente apicale, per creare una macchia di inquinamento nei rapporti e nella credibilità.

Lorenzo de’ Medici gestiva il suo potere con assoluta determinazione e senza alcuna remora, vedi cosa successe ai suoi avversari politici quando assassinarono suo fratello Giuliano. I corpi dei congiurati penzolarono a lungo sulla facciata del Palazzo della Signoria. Ma la sua Firenze divenne per sempre un faro di cultura e di bellezza per l’umanità intera.

Fatte le debite proporzioni fra l’oggi e quei secoli duri e magnifici, se avete un’azienda, prendetene esempio. E se un vostro manager fa lo stronzo impiccatelo senza esitazioni.

Ma davvero i leader aggressivi difendono meglio il branco?

In un esperimento condotto dall’Università della Virginia sono state fatte ascoltare, ad un campione di elettori, una serie di coppie di frasi pronunciate durante varie campagne presidenziali americane, senza indicare quale candidato le avesse realmente pronunciate.

In ogni coppia di frasi una era positiva e costruttiva, l’altra era critica ed aggressiva. Il campione doveva indicare a quale delle due frasi collegava una leadership più forte.

A grande maggioranza le frasi aggressive sono state attribuite a leader più forti, che sarebbero anche stati votati.

I ricercatori collegano questo risultato ad aspetti arcaici della psicologia umana. Quando eravamo ancora scimmie, nei momenti di carenza o di pericolo, il branco si affidava ovviamente agli individui più dotati fisicamente e più aggressivi.

In ambiti aziendali questa tendenza viene mitigata dalla complessità del contesto, delle interazioni e delle attività da svolgere.

In un ambito politico la situazione è diversa, soprattutto oggi. Infatti, in una comunicazione iper-sintetica come è quella veicolata dai social media, la tendenza a preferire leader aggressivi, percepiti come più capaci di difendere il branco, sta dilagando.

Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale.

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