“The consultant”. Un divertente incubo aziendale

Interpretata da un superlativo Christoph Waltz, l’attore viennese premio Oscar per “Bastardi senza Gloria” e “Django Unchained”, la serie “The consultant” su Prime Video si caratterizza per una sceneggiatura brillante e molto originale, giocata su diversi registri e piani narrativi.

La storia si svolge in una azienda che crea videogiochi. Dopo che il titolare è stato ucciso alla sua scrivania, da un bambino in visita, fa la sua comparsa un enigmatico consulente, Regus Popoff interpretato da Waltz.

Popoff prende subito il controllo dell’azienda, grazie a un contratto con cui il proprietario, poco prima di essere ucciso, gli aveva conferito pieni poteri.

Non sa niente del business ed ha comportamenti che spiazzano i dipendenti.

Ma da subito esercita una leadership totale su di loro, addirittura invadendo le loro sfere private.

La sceneggiatura intreccia abilmente diversi livelli. Elaine e Craig, due dipendenti chiave, indagano sugli aspetti misteriosi di Popoff facendo scoperte inquietanti sulla sua vita. Come in un incubo Eliane scopre un vetusto magazzino segreto, nascosto nel locale dei server, dove sono custodite schede cartacee dettagliatissime sui dipendenti. Quasi un inconscio collettivo dell’azienda.

In azienda si sviluppano dinamiche inattese.

Popoff usa metodi detestabili. Meravigliosa la scena in cui annusa i dipendenti, schierati in fila, alla ricerca del responsabile del cattivo odore che si sente negli uffici. Manipola tutti apertamente, con capacità quasi ipnotiche. Per molti aspetti è l’epitome del tipico top manager stronzo che ognuno di noi ha incontrato nella sua carriera.

Però si scopre che l’azienda è prossima al fallimento e che Popoff sa come salvarla, pur non conoscendo nulla del settore videogiochi.

I dipendenti, giovani creativi impigriti dalla precedente gestione, dopo la sorpresa iniziale reagiscono positivamente alla leadership maniacale, invasiva e stravagante di Popoff.

Eliane scopre dentro di sé un’ambizione di carriera che non sapeva di avere e che la porta a superare ogni scrupolo.

Alla fine Popoff finisce il suo mandato e sarà lei a sedersi nell’ufficio dirigenziale in un’azienda tornata al successo.

Sembra che gli autori, fra un coup de theatre e l’altro, abbiano voluto dirci che le aziende hanno bisogno di un leader e che un leader folle e improbabile è comunque meglio di uno normale ma assente.

L’Italia di ieri e di oggi

Boccaccio 70 è un film ad episodi del 1962 diretto da Fellini, De Sica, Visconti e Monicelli. E’ un’acida e divertente descrizione di un’Italia bigotta ed arretrata.
In quegli anni la commissione censura ci andava giù pesante, anche artisti famosi ne facevano le spese. Ma spesso si vendicavano con film come questo.

L’episodio diretto da Fellini, sceneggiato assieme a Flaiano e Pinelli, interpretato da un eccezionale Peppino De Filippo, si intitola “Le tentazioni del Dottor Antonio”.
Ci mostra la surreale vicenda del Dottor Antonio Mazzuolo, integerrimo esponente del mondo cattolico, ossessionato dal sesso dopo un trauma nell’adolescenza prodotto da una zia particolarmente prosperosa.

Da adulto, si dedica a fustigare i costumi altrui. Con l’appoggio entusiasta delle autorità civili ed ecclesiastiche va di notte, a bordo della sua Seicento Fiat, nei viali dove si appartano le coppiette. Le illumina con i fari e le copre di insulti esortandole ad evitare il sesso fuori dal matrimonio. Irrompe sul palcoscenico di un teatro di avanspettacolo con le ballerine sculettanti e lo interrompe, schiaffeggia una signora al bar che mostra troppo le gambe.

Mazzuolo, un nome che evoca il mazzolatore del malcostume ma è anche un riferimento ironico all’organo sessuale, ha evidentemente dei problemi. Che esplodono apertamente quando nel prato davanti a casa sua viene montato un gigantesco cartellone pubblicitario con la foto di una provocante Anita Ekberg che appoggiando un bicchierone sulla generosa scollatura esorta a bere più latte.

Mazuolo è ossessionato dal cartellone, le prova tutte per farlo rimuovere e alla fine riesce a farlo coprire. Ma una notte la pioggia porta via le coperture e l’episodio vira clamorosamente verso il surreale.
La Ekberg esce dal manifesto come una gigantesca e provocante visione onirica e irretisce Mazzuolo che, in pieno delirio erotico, finisce per affogare piagnucolando nel suo enorme seno, come un bambino.

Si torna alla realtà la mattina dopo, quando lo ritrovano in mutande abbarbicato in cima al cartellone. Due infermieri lo portano via in ambulanza.

Il film è del 1962, ben sessant’anni fa, un’Italia dove i diritti più elementari delle persone venivano negati in nome di una visione integralista ed arcaica della società e della famiglia. Oggi, un Mazzuolo in una posizione di potere, ministro o addirittura presidente della Camera dei Deputati sarebbe impensabile.

“Tarda Primavera” di Yasujirō Ozu, 1953

“Tarda Primavera” del 1949 è, assieme a “Viaggio a Tokyo” del 1953,
uno dei film più famosi fra i molti girati da Yasujirō Ozu.

Narra del rapporto fra un padre vedovo, professore universitario, e la sua unica figlia. Vivono insieme in una cittadina vicino al mare e lei si sente realizzata nell’accudire il padre, che adora. Ma il padre, che a sua volta ha per la figlia un amore profondo, vorrebbe vederla sposata e indipendente. Arriverà ad un espediente per riuscire a convincerla a quel distacco che il suo altruistico amore paterno sente come necessario. Anche se lui resterà solo.

Nello svolgere una trama così minimale, Ozu riesce però a filmare i sentimenti più profondi di padre e figlia. Lo fa con un rispetto e un pudore propri della cultura giapponese. Un pudore che si riflette nelle sue famose inquadrature in interni con la camera fissa in basso e distanziata. Grazie a questo artificio stilistico abbiamo l’impressione di spiare, non visti, le interazioni e gli stati d’animo intimi dei personaggi.
Impossibile vedere il film se non in lingua originale sottotitolata, perché dialoghi e gestualità sono tipicamente giapponesi. Ma le emozioni sono forti e ben percepibili sotto il formalismo controllato delle mimiche e delle espressioni.

C’è poi il livello dell’analisi sociale, che Ozu svolge giocando sui costumi e sulle scenografie. La casa del professore è una casa giapponese tradizionale. Al piano superiore, nella stanza della ragazza, l’arredo è di tipo occidentale. Del tutto moderna è la casa dell’amica divorziata con cui la figlia, legata ai valori tradizionali, non riesce ad omologarsi. E alla fine sono i valori tradizionali a prevalere.
Ozu ci narra l’evoluzione di un Giappone che ama profondamente e che vede cambiare. Ci comunica questo amore con la poesia delle scene in esterno, dove i templi e i paesaggi rispecchiano la mistica zen.

“Mica scema la ragazza!” (Une belle fille comme moi) di François Truffaut-1972

“Mica scema la ragazza!” (Une belle fille comme moi), del 1972, è fra i film di François Truffaut che vennero meno apprezzati dalla critica, probabilmente  a causa del metro di giudizio molto politicizzato che imperversava in quegli anni. 

Eppure, visto oggi, è un film gradevolissimo. 

Il giovane professore Stanislao Prévine, interpretato da un André Dussolier agli esordi, per scrivere un trattato di sociologia criminale intervista in carcere la seducente Camille Bliss (Bernadette Lafont). 

L’intervista è il pretesto narrativo per mostrarci la vita di Camille a partire dall’infanzia, quando ammazza il padre violento togliendoli la scala del granaio, fino al successo come cantante e alla ricchezza. 

Camille parte svantaggiata in tutto tranne che per una bellezza provocante che fa impazzire gli uomini. Ed è grazie a questa arma, usata senza alcuna remora, che Camille arriva al successo massacrando come una mantide gli uomini di cui si serve, siano essi artisti spregiudicati, disonesti avvocati di provincia o rigidi moralisti che alla fine impazziscono per lei. 

E rovina anche il povero Stanislao che finisce in carcere per un omicidio commesso in realtà da Camille, che ha soggiogato anche lui. 

Il film ha un montaggio rapido, la recitazione è fortemente caratterizzata, le situazioni sono al limite del parodistico. Il film è un divertissement, una commedia ferocemente ironica in cui Truffaut illustra in modo apodittico la sua peculiare filosofia della vita. 

Camille non è immorale, neanche amorale. Ha una morale tutta sua in cui lo svantaggio delle poverissime origini viene superato usando come strumento il sesso, e l’incredibile potere seduttivo che Camille è ben consapevole di possedere.

C’è ovviamente molto di Truffaut in Camille, le origini umili, un’infanzia difficile e una vita privata ed affettiva del tutto fuori dagli schemi borghesi, il successo raggiunto nonostante tutto. 

Non a caso la scena in cui Camille fugge dal riformatorio è una citazione puntuale della scena clou, finale, dei “Quattrocento colpi” il film programmatico e più autobiografico di Truffaut.

“I quattrocento colpi” di François Truffaut

“I quattrocento colpi”, del 1959, è il primo lungometraggio di François Truffaut ed uno dei grandi classici del cinema. Il titolo italiano non ha senso perché traduce alla lettera l’espressione francese intraducibile “faire les quatre cents coups” che significa fare un gran casino, andare contro le regole, fare il diavolo a quattro. Anche il doppiaggio non è all’altezza dell’originale ed è consigliabile vedere il film in francese, eventualmente con l’aiuto dei sottotitoli.

Antoine Doinel, il protagonista dodicenne interpretato da Jean-Pierre Léaud, che sarà l’alter ego del regista anche in film successivi, vive esperienze simili a quelle vissute da Truffaut nella sua difficile infanzia.

Sta con la madre, che non lo ama, e con il patrigno in uno squallido e minuscolo appartamento. Dorme in un sacco a pelo in una specie di cubicolo. A scuola è vessato da un maestro autoritario. Nel tentativo, costantemente fallimentare, di crearsi una sua autonomia e una sua libertà Antoine si mette progressivamente nei guai, fino a compiere maldestramente un furto e finire in riformatorio. Su questa trama, attorno ad Antoine ed alla sua innocente e tenace ricerca di libertà, si intrecciano episodi e personaggi di un film denso di vita.

Influenzato dal neorealismo italiano il film è considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague. I piani sequenza, le inquadrature, il montaggio sono ancora attualissimi e rendono il film avvincente e veloce. La fotografia ci immerge splendidamente in una Parigi fredda e grigia. La recitazione del giovanissimo Léaud toglie ogni pietismo al personaggio di Antoine, pur facendocelo amare.

Quando Antoine scappa dal riformatorio, e corre verso il mare che non ha mai visto, la sua corsa diventa la nostra. E l’inquadratura finale in cui Antoine, con il mare alle spalle, fissa lo sguardo sullo spettatore resta uno dei momenti più belli di tutta la storia del cinema.

Amore mio aiutami con Alberto Sordi e Monica Vitti (1969)

“Amore mio aiutami” è un film del 1969 diretto da Alberto Sordi che ne è anche sceneggiatore assieme a Rodolfo Sonego e Tullio Pinelli.

Sordi interpreta Giovanni Machiavelli, un agiato dirigente bancario, sposato con Raffaella (Monica Vitti). L’idilliaco rapporto della coppia, borghese e benestante, implode clamorosamente quando Raffaella, già di suo svagata e un po’ nevrotica, si prende una dirompente cotta adolescenziale per un altro.

I tentativi di Giovanni per risolvere civilmente l’inatteso problema si scontrano con la tenacia di Raffaella. Memorabile la scena sulla spiaggia in cui un ancestrale maschilismo prende il sopravvento sulla civile e “moderna” tolleranza che Giovanni vorrebbe imporsi. E’ la scena famosa in cui Giovanni gonfia di botte Raffaella che, nonostante il pestaggio, itera il tormentone “si che lo amo !!”.

Alla sua uscita il film ebbe un grande successo di pubblico, mentre la parte della critica più schierata politicamente, siamo nel ’69, accusò Sordi di una certa misoginia e di aver voluto celebrare i valori tradizionali del matrimonio. In realtà nel film non prevalgono intenti sociologici e l’approfondimento psicologico dei personaggi è puramente finalizzato a rafforzare i meccanismi comici. La recitazione di Sordi e della Vitti è sfavillante, le tempistiche comiche sono straordinarie, e il film regala due ore di cinico divertimento alle spalle dei due personaggi centrali, a cui si finisce però per affezionarsi per la loro disarmata umanità.

“L’avventura” di Michelangelo Antonioni

Prime Video, il servizio streaming di Amazon, sta diventando sempre più la terra promessa dei cinefili. Scavando nel catalogo, infatti, saltano fuori i grandi classici del passato, alcuni famosi altri meno, e tanto grande cinema, dagli anni Trenta in poi.  Ci sono molti film con Jean Gabin, dei noir francesi amari e robusti. Commedie degli anni Sessanta e Settanta con Tognazzi, corrosive e feroci nel dipingere le ipocrisie di quegli anni. Quasi tutto Hitchcock, Chabrol e tanti altri maestri del cinema le cui opere sono ancora di una modernità sconcertante. Film che è un piacere vedere, o rivedere, perché di alta qualità sotto tutti gli aspetti.

Ieri sera ho guardato “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, del ’60, il primo film della cosiddetta “Trilogia” seguito da “La notte” e “L’eclisse”.

Il bianco e nero perfetto, restaurato di recente, valorizza una fotografia e una scenografia splendide.

Il film è una danza macabra di sentimenti inariditi ed egoistici, e di passioni che travolgono i personaggi.

Il prologo, a Roma, introduce in chiave realistica i personaggi centrali: la scontenta Anna (Lea Massari) la sensuale, generosa e inconsapevole Claudia (Monica Vitti) e il cinico e disilluso architetto Sandro (Gabriele Ferzetti).

Nelle scene sulle scogliere dell’isola di Lisca Bianca, nelle Eolie, dopo la scomparsa inspiegabile di Anna (Lea Massari) le convenzioni sociali del gruppo di amici benestanti, scesi dalla barca, si svuotano nel rumore del vento e delle onde, una probabile citazione da “Le tempestaire” di Jean Epstein.

Sandro e Claudia si mettono alla ricerca di Anna, attraverso una Sicilia ancora arcaica. Meravigliose le scene a Noto, dove la bellezza della città manda in crisi Sandro che ha rinunciato, per denaro, al lato artistico del lavoro di architetto. Nel viaggio i personaggi di Claudia, nella sua semplicità, e Sandro nel suo sensuale egoismo, si scoprono progressivamente. Fino alla scena finale in cui con un gesto di affetto, nonostante tutto, Claudia, unico personaggio positivo, mette una mano sulla spalla di un Sandro finalmente in lacrime.

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